A volte alcuni concetti hanno successo per la loro semplicità e apparente funzionalità.
Così diventano convinzioni, cose che diamo per scontato come fossero fatti.
Per esempio: "L'ananas brucia i grassi". E quindi ci immaginiamo che questo concetto ci aiuti a calare di peso. Facile, veloce.
Qualcosa di simile è il concetto di zona di comfort nella mitologia del coaching: "Per cambiare occorre uscire dalla zona di comfort, semplicemente cambiando mentalità".
E quindi ci immaginiamo una ipotetica soglia mentale da varcare e vai... si cambia! Facile, veloce.
In questo articolo voglio condividere perché ritengo il concetto di zona di comfort sviante e riduttivo rispetto a come funziona la mente.
Molto più vicino ai fatti, dal mio punto di vista, è il concetto di abitudine.
Noi siamo fatti di abitudini, complessi meccanismi di adattamento che fortunatamente funzionano maledettamente bene. Se così non fosse non sopravviveremmo a tutte le avversità e le complessità che affrontiamo quotidianamente.
Adesso pensa alla difficoltà che sperimentiamo quando cerchiamo di cambiare un'abitudine e confrontala con il mito della zona di comfort.
E già, qualcosa non torna rispetto alla semplicità e alla facilità. Magari bastasse cambiare mentalità!
E per spiegarmi meglio uso un episodio che è allo stesso tempo esperienza di vita vera e metafora del cambiamento.
Ho da poco terminato l’ascolto del podcast di RaiPlay Sound “Io ero il milanese”. Un ascolto che mi sento assolutamente di consigliare.
E’ la biografia narrata di una persona che ha conosciuto la galera fin da quando era adolescente. E’ la storia di una persona che ha saputo rielaborare le proprie convinzioni e letteralmente rinascere. Ora lavora come consulente di giustizia riparativa.
Nell’ultima puntata c’è un brano che mi ha colpito profondamente, perché è una descrizione incredibilmente viva e vibrante di questo concetto che è diventato una sorta di slogan nel coaching: la zona di confort. La descrizione è così vivida e chiara che è letteralmente un pugno allo stomaco.
In breve, il brano è questo.
Il protagonista, Lorenzo S, stava scontando una pena di 25 anni di carcere. Dopo 8 anni di carcere un avvocato d'ufficio si accorge che la pena è stata calcolata male e chiede la sua scarcerazione. La richiesta è accolta e Lorenzo, quasi da un giorno all’altro, è libero.
Lorenzo, durante gli anni di carcere aveva desiderato con tutto sé stesso la libertà. Aveva piegato sé stesso, rivisto le sue convinzioni, affrontato situazioni al limite. Si era adattato a vivere nell’ambiente durissimo della cella, dove mancano le cose che per noi sono la normalità.
Eppure, una volta uscito, sperimenta sensazioni che non avrebbe mai immaginato.
A un certo punto racconta:
“Questa sensazione di non avere le sbarre alle finestre... da togliere il sonno.
Le prime notti… al pensiero di non avere le sbarre alle finestre… mi sentivo molto insicuro.
Che è pazzesco veramente, perché era come se mi mancasse qualcosa.
Mi svegliavo di soprassalto la notte e guardavo queste finestre da dove entrava dai fori delle tapparelle la luce gialla dei lampioni, la luce notturna e non vedere questi quadrati… l'ombra. Ecco, io, una cosa che non dimentico è che cercavo, quando mi svegliavo di notte, il riflesso delle sbarre nei muri.
E io mi ricordo che quando… siccome mi svegliavo tantissimo, dormivo malissimo, mi svegliavo la notte, tante volte… le cercavo proprio. Poi mi rendevo conto che non ero in carcere.
Era una libertà dei primi giorni che mi stava molto stretta, che non mi sentivo libero. Mi sentivo imprigionato, paradossalmente più imprigionato di quello che ero prima.”
Ed è in questi primi giorni che Lorenzo sente una forte nostalgia di quella società isolata, esclusa dal resto del mondo, ma protetta, del carcere.
Lorenzo racconta:
“Non so quante volte ho pensato che volevo tornare in galera. Un mare di volte.
Prima di tutto perché non dormivo e io in galera dormivo, dormivo bene.
E delle volte per il fatto che non dormivo… ero sempre molto stanco, avevo voglia di dormire. Dicevo “cazzo… ma fatemi entrare per farmi un sonno poi esco di nuovo!”. Si, si… mi mancava quel materasso di merda di spugne del carcere perché comunque ero abituato a dormire lì sopra. Sopra ad un materasso vero non ero abituato a dormire bene.
E si, poi, tante volte ho provato desiderio di rientrare in carcere perché comunque il carcere… in qualche modo sei dentro a questa campana di vetro e ti ripara da tutto quello che stavo provando io fuori.”
Che succede? Una cosa così chiaramente, limpidamente, indiscutibilmente desiderata come la libertà e poi Lorenzo vuole tornare indietro?
Sì, proprio così.
Desideriamo per anni qualcosa e quando ci ritroviamo improvvisamente proiettati nella nuova dimensione vogliamo tornare indietro.
Il punto è che questa descrizione cozza con il mito della zona di confort come “non volere sforzarsi a…” perché la zona di confort “è comoda”. Il mito afferma che basterebbe cambiare prospettiva…
Invece il concetto di zona di confort, a mio modo di vedere, si capisce meglio a partire non dalle nostre convinzioni, ma a partire dalla nostra estrema capacità di adattamento.
Corpo e mente (che nella prospettiva moderna sono la stessa cosa) sono in grado di plasmarsi e adattarsi a condizioni estreme. Una volta che queste condizioni cambiano troppo velocemente corpo e mente non hanno punti di riferimento e reagiscono ricercando la vecchia situazione di equilibrio.
Come esseri umani abbiamo bisogno di punti di riferimento perché sono questi che ci consentono di adattarci.
Quali sono le implicazioni?
Anzitutto, implicazioni sul concetto di cambiamento.
Il cambiamento è un processo di adattamento a qualcosa di nuovo. Da un adattamento consolidato, a un adattamento da ricostruire.
Qualcosa che si costruisce a passi molto piccoli, come quando si scala una parete rocciosa.
Di metro in metro lo scalatore cerca i punti cui aggrapparsi, mette chiodi, si tiene alla corda di sicurezza. Il pericolo è che vengano a mancare improvvisamente i punti di riferimento prima di averne costruiti altri.
Altra implicazione è un aumentato rispetto per chi ha il coraggio di affrontare i disagi che derivano da un percorso di cambiamento.
E il disagio maggiore è questa sensazione di spaesamento e di confusione.
Non è una questione solo mentale e non si tratta di resistenza ad abbandonare una situazione “di comodo”.
Si tratta di tollerare i disagi che inevitabilmente si hanno a causa del nuovo processo di adattamento.
Il che comporta il tempo di costruire punti di riferimento nuovi, di muoversi a piccoli passi, di sostenere la fatica di restare aggrappati.
Per questo rifiuto il mito della vita nuova, del cambio improvviso, del buttarsi (tranne nelle situazioni dove la casa brucia...).
Ogni cambiamento solido è costruito passo passo.
In questo il coaching è uno strumento potentissimo: supporta il cambiamento facilitando la modifica delle proprie abitudini di pensiero e di comportamento, sostenendo un cambiamento passo dopo passo, in un tempo adeguato ai bisogni della persona che lo richiede.
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