top of page

Perché abbiamo bisogno di un coach - Parte 1

Aggiornamento: 12 feb 2022


Voglio invitarti a fare un’esperienza.


E’ probabile che tu abbia incontrato il test che ti propongo sotto forma di passatempo, addirittura già a scuola con i tuoi compagni. Se non ricordi la soluzione, meglio, perché avrai l’opportunità di apprendere dall’esperienza.


In realtà, questo test è nato molto tempo prima dei social. È nato per indagare i processi cognitivi, nei lontani anni ’30, nell’ambito della psicologia sperimentale.


Il suo autore è lo psicologo americano Norman Raymond Frederick Maier, e compare per la prima volta in un suo articolo nel 1930 (Reasoning in humans, Journal of Comparative Psychology, 10, 115–143).


Ecco le istruzioni.


Osserva questi punti.


Il problema dei nove punti dello psicologo statunitense Norman Maier

Ti chiedo di collegare tutti i punti con 4 segmenti contigui, senza staccare mai la penna dal foglio e senza ripassare sullo stesso tratto.

Tempo a disposizione: 5 minuti max.


Ti suggerisco di fare il test e poi andare avanti nella lettura dell’articolo.


Ok, la soluzione non te la posso dare in questa pagina per evitare di provocare la voglia di andare subito a vederla senza fare il test… ma puoi trovarla in questo link.


Adesso analizziamo l’esperienza.


Il quesito iniziale sembra apparentemente semplice. Poi, quando si comincia il test si capisce subito che c’è qualcosa che non gira nel verso giusto.


Mediamente, se non hai trovato la soluzione immediatamente, dopo circa un minuto inizia ad emergere fortemente il pensiero che la soluzione sia impossibile. Oppure, che ci sia un trucco. E più questa idea attraversa la mente, più sembra reale. Ci convinciamo che sia così.


Il motivo per cui non troviamo la soluzione è che la nostra mente genera delle regole inconsapevolmente e poi si attiene ad esse, faticando non poco a metterle in discussione.

In questo caso la regola generata inconsapevolmente è “i segmenti non devono eccedere la figura geometrica che nasce dai puntini”. La figura geometrica che i puntini “rappresentano” è chiaramente riconoscibile come un quadrato. A riprova di questo basti pensare che il test è stato divulgato ed è ormai noto come “il quadrato di Maier”, mentre il nome originale è “il problema di Maier”.


Dal momento, però, in cui la mente passa dal vedere un insieme di puntini all'idea "questo è un quadrato" è molto difficile tornare indietro. Noi siamo veramente convinti che quello sia un quadrato. Lo vediamo. Per noi è la realtà.

Solamente che il quesito chiede di “unire i puntini”, non parla di quadrato. Non chiede di “unire i puntini rimanendo entro i confini del quadrato”.


Risultato: dopo i primi frustranti tentativi siamo (profondamente) convinti di non riuscire a trovare la soluzione.


E come avrai visto consultando la soluzione, è soltanto modificando il nostro punto di vista che riusciamo a elaborarla. Costruiamo la soluzione unicamente cambiando punto di vista e reinterpretando le cose che abbiamo sotto gli occhi.


Per esempio, reinterpretando l'idea “quadrato formato dai puntini” in “semplice gruppo di puntini” (nel coaching questa operazione si chiama reframing).


Ed ecco il punto: questo semplice test può essere preso come metafora delle situazioni in cui, per raggiungere un risultato desiderato, ci è utile fare coaching.

Perché?


La nostra mente è molto rapida ed efficace nel generare schemi entro i quali muoversi. Per farlo genera inconsapevolmente e continuamente delle regole. La mente interpreta, genera significati e vincola il comportamento a quei significati. E poi si attiene inconsapevolmente e strettamente ad essi.


Ma così facendo a volte rimane intrappolata e gira a vuoto. Soprattutto quando le situazioni sono complesse e non lineari.


Per uscire, cambiare punto di vista, reinterpretare la realtà, svincolarsi e recuperare opzioni di azioni (che non vediamo più) abbiamo bisogno di qualcuno che ci guardi dall’esterno (il coach, opportunamente addestrato) e che ci aiuti a riflettere e identificare le regole che ci stanno impedendo di raggiungere i risultati desiderati. E dopo averle identificate, che ci aiuti a metterle in discussione e reinterpretarle in una chiave che ci permetta di recuperare opzioni e capacità d’azione.


Nel coaching queste regole autoprodotte inconsapevolmente si chiamano convinzioni. Le convinzioni sono quelle che più di tutto ci allontanano dai risultati.

Il quesito tipico del cliente del coaching, infatti, si configura così: [sono profondamente convinto/a] + di non riuscire a + compiere una certa azione + per ottenere un certo risultato.


Ho messo l’affermazione “sono profondamente convinto/a” tra parentesi perché neanche il cliente sa di avere la convinzione di non riuscire. Semplicemente crede che la propria convinzione sia la realtà dei fatti.


A volte può anche arrivare a credere che sia il mondo esterno a mettergli i bastoni tra le ruote. Proprio come noi con il problema di Maier: è probabile che emerga il pensiero “qui mi stanno fregando con qualche trucco…”.


Le convinzioni più frequenti sono quelle che ci fanno pensare “non sono in grado”, “non posso”, “non ho tempo”, “non ce la farò”. Altre sono più complesse da individuare e scomporre.


Il punto è, però, che quando siamo impantanati nelle nostre convinzioni non riusciamo ad uscirne, proprio come succede con il problema di Maier.

Come se ne esce allora? Da soli è molto difficile o ci si mette il doppio del tempo, semplicemente perché dovremmo fare una cosa che non ci viene per niente naturale: essere obiettivi con noi stessi.

Essere obiettivi con il cliente, invece, rientra nelle competenze del coach.


Con il termine “essere obiettivi” non voglio affermare che il coach ha accesso alla verità delle cose. E neanche che il coach è uno, al contrario dei clienti, che sa essere obiettivo con se stesso.


Semplicemente, un terzo esterno opportunamente formato ha la capacità di vedere (ma questo forse possono farlo tutti) i punti ciechi e di restituirli sotto forma di comunicazione costruttiva (e su questo bisogna essere esperti in una professione di supporto come il coaching).


Noi non possiamo vedere la nostra schiena. È un punto cieco. Ma qualcun altro può farlo, e se lo fa nella dovuta maniera ci può consentire di incrementare la conoscenza di noi stessi.


In sintesi, essere “obiettivi” con gli altri è molto più semplice, anche per un coach…


E adesso un esempio pratico di come il metodo del coaching possa intercettare e modificare una convinzione affinché il cliente acquisiti capacità d’azione e si muova verso i risultati desiderati.


Anzi, l’esempio lo rimando alla seconda parte dell’articolo, perché già la prima è stata veramente troppo lunga… sigh!


Post recenti

Mostra tutti
bottom of page